9 de set. de 2005

O mais brasileiro dos italianos

Sergio Endrigo, l'altra faccia dello chansonnier
Il cantautore si è spento a Roma Colto, raffinato, comunista inquieto, protagonista di stagioni fondamentali della musica italiana, l'artista di «Teresa», «Canzone per te» e «Tango rosso» è sempre stato un outsider, fuori da mode e oltre le ideologie
ALDO F. COLONNA
ROMA
Sergio Endrigo si è spento ieri. Entrato in clinica per la riabilitazione motoria di una gamba, gli esami di routine avevano evidenziato una malattia allo stadio terminale che lo ha divorato in pochi mesi. Aveva compiuto 72 anni lo scorso giugno. Adesso che Endrigo se n'è andato, rimane impressa nella memoria quella figura estraniata, coricata, persa dietro chissà quali pensieri quando lo andammo a trovare in clinica per l'ultima intervista. Chissà che non pensasse a una goletta in rotta verso i mari del Sud o, meglio, verso quell'Eldorado che rappresentava per lui il Brasile. Quando lo chiamai e riemerse dalle sue astrazioni ebbi l'impressione che avesse già staccato la spina, in una forma cosciente di ideale eutanasia. Sembrò, a ripensarci bene, una delle scene iniziali de La notte di Antonioni allorché Giovanni (Mastroianni) fa visita in ospedale a un amico morente (Bernhard Wicki) e insieme blaterano sul lavoro intellettuale svolto per la rivista Paragone. Coincidenza strana, parlammo in quell'occasione anche dell'utilità delle riviste letterarie! Da una parte un uomo che intuisce il baratro che gli si è aperto davanti e si sforza di minimizzare, dall'altra un uomo alle prese con un senso di fallimento esistenziale e estraniato nonostante fosse partita da lui l'idea dell'intervista. Si schermiva, come tenesse di più alla visita dell'amico e sembrava dicesse «non parliamo di me» mentre io ero lì proprio per parlare di lui.

Ricordo una cosa, in quel frangente, che gli premeva su tutte: che parlassi della questione del plagio, che Bacalov lo aveva fregato e lui non ci stava. Il nome di Endrigo rimarrà scolpito a chiare lettere nella storia della nostra cultura recente. Buon sangue non mente, fu quasi figlio d'arte: il padre era un tenore autodidatta, davvero bravo se si esibì negli anni `20 al Dal Verme di Milano ne La bohème e in Madame Butterfly. A dieci anni, nell'osteria sotto casa dove andava a comprare il vino, l'oste lo prendeva di peso, lo metteva sul tavolo e il piccolo Sergio deliziava gli avventori cantando La donna è mobile (e cominciando a guadagnare le prime lire). Ha attraversato stagioni importanti, quella dei cantautori genovesi e milanesi, quella della Ricordi e dell'Rca, quella del Piccolo Teatro di Milano dove s'inventò la figura dello chansonnier che non proponeva semplicemente le sue canzoni ma intratteneva il pubblico, interagiva con esso, alla maniera di Yves Montand tanto per intenderci e precedendo senza saperlo la stagione più prettamente politica di Gaber.

Intrecciò rapporti con l'intellighenzia frequentando Buttitta, Ungaretti, Pasolini, Rafael Alberti e lavorando su loro proposta, frequentò Gianni Rodari al quale lo legò una fruttuosa amicizia stabilendo per suo tramite un contatto con il mondo dell'infanzia. Il legame con Bardotti, poi, fu la finestra sull'esotismo che portò al sodalizio con i brasiliani: Vinicius De Moraes, Chico Buarque De Hollanda, Toquinho. Nel 2001 vinse il Premio Tenco. Autore di almeno 250 canzoni (solo per citarne qualcuna in ordine sparso: Mani bucate, La brava gente, Io che amo solo te, Via Broletto 34, Teresa, Canzone per te, Lontano dagli occhi, Viva Maddalena), Endrigo fu in realtà artista eclettico. Nel `72 fu protagonista del film di Carlo Tuzii Tutte le domeniche mattina presentato a Venezia ma mai distribuito nelle sale; scrisse un romanzo aspro, di buon taglio, Quanto mi dai se mi sparo? sulle flatulenze dell'industria discografica e i suoi compromessi, negletto dal primo editore, oggi riproposto con buon successo da Stampa Alternativa; è noto il suo impegno ecologista col progetto Ci vuole un fiore che impegnò le scolaresche romane qualche anno fa.

Uomo di sinistra immune dalla febbre che genera sempre più spesso voltagabbana, mai ideologizzato, e animato sempre dalla maledetta voglia di capire, scrisse nel '90 Tango Rosso, lettura critica della crisi che attanagliava il Pci. Partecipò a manifestazioni nazional-popolari come Canzonissima e il Festival di Sanremo senza mai farsene condizionare e con onestà ammise di aver vinto l'edizione del '68 sull'abbrivio della tragedia che aveva travolto Tenco l'anno prima. Interprete personalissimo, calato nel suo tempo e a questo mai estraneo, sempre teso ad ancorare i suoi testi al sentimento collettivo e alle problematiche sociali, assolutamente estraneo alle mode, Endrigo si è confrontato in modo inesausto con culture dissimili e alternative e con le più disparate forme artistiche, intessendo il suo disagio con la poesia e la letteratura.

Era stata Cuba a farci sentire vicini tanti anni fa, in occasione della prima intervista che mi rilasciò nella sua casa di Mentana e che finì in un pranzo luculliano affogato da una decina di mojitos che preparava con preciso rispetto della tradizione. Amava le donne Endrigo e il loro mondo ma la moglie, che in quell'occasione viveva felice la serenità del marito, fu la donna che amò sopra tutte. Non era credente e mi spiegò una volta il suo ateismo riallacciandosi all'aforisma di Ambrose Bierce: «Credere senza prove a ciò che ci viene detto da uno che parla senza cognizione di causa di cose senza paragone».

Era un lettore indefesso, colto. Da adolescente «rubò» nella biblioteca dello zio Manzoni e Salgari; tra le sue letture si annoverano Maupassant, Ibsen, Pasolini ma Steinbeck rimane il suo preferito. Anche se non l'aveva approfondito, conosceva bene Pavese. E a questo proposito viene in mente anche un altro ricordo: il suo pappagallo carioca con tanto di certificato anagrafico (40 anni!) affisso al muro che ci rifà il verso mentre parliamo di poker, di pasta e fagioli e di Cesare Pavese, appunto.

Malgrado avesse doppiato la boa dei settanta, malgrado questo, è difficile accettare che se ne sia andato quando aveva ancora la testa piena di progetti e gli occhi pieni di oceano.

Diceva di volersi trasferire in Brasile e finire lì i suoi giorni. E adesso, siccome poi alla fine di tante parole uno deve pure fare i conti con il proprio stupore, conviverci in qualche maniera, io mi sono inventato che Sergio ci abbia giocato un tiro mancino. Mi pare già di vederlo: ha indossato una maglietta a striscie orizzontali bianche e blu, s'è messo la bandana, il sigaro ai bordi della bocca e, carezzato dalla brezza marina, è in attesa di salpare appoggiato al boma. Perché sì, ne sono certo, si è imbarcato sulle navi di Cortez per andare a vedere se nell'altipiano di Tecnochtitlàn si fanno davvero sacrifici umani.

22 comentários:

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